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Eritrea, il passaggio della Storia: chiese, sicomori, pasticcerie (e un cimitero di carri armati)

Otteniamo il permesso per visitare anche l’area sud del paese e potremo così partire verso l’altopiano di Cohaito. Il grosso masso di roccia a bordo strada riporta l’iscrizione:

A promuovere la prosperità della colonia governando / Ferdinando Martini /  il corpo di truppe coloniali / aprì questa rotabile /  Saganeiti – Asmara 1937

Nessuna auto finora sulla strada, solo un uomo in bicicletta che sta scendendo verso valle.

I controlli militari intensificano la cadenza e dobbiamo fermarci dopo pochissimi chilometri per esibire l’elenco dei passaporti e i permessi di accesso all’area. Viaggiamo accompagnati da una giovane guida che parla un italiano grammaticalmente perfetto ma arrugginito dal poco uso, e un autista settantenne che fatica a guidare nel buio (le cataratte, penso).

Il cartello sbiadito indica un cimitero dei patrioti. Siamo vicini alla città di Decamerè, annunciata da una costruzione dell’epoca fascista, che reca l’iscrizione “Spaccio Militare Presidio Decamerè”, in parte abbandonata e sopraffatta da enormi fichi d’India, in parte in fase di restauro (chissà per ricavarne quale nuova destinazione), in parte utilizzata come latrina da occupanti di fortuna.

Dobbiamo fermarci prima dell’ingresso in città per un ulteriore minuzioso controllo dei nostri permessi. Attendiamo di fronte ad un Music Shop che offre musica ad alto volume da un grande amplificatore posizionato a bordo strada, dove si vendono anche occhiali da sole, un forno per cucina, cuffie per la musica e una “semi automatic mini washing machine 3,8 kg” come promette l’involucro impolverato marchiato NOVA. Poi la musica si ferma e dall’altoparlante esce una voce sicura e veloce… immagino sia un sermone… no, si parla di calcio e di risultati… la Premier League è argomento che interessa tutti e un annuncio ad alto volume diviene servizio pubblico a vantaggio della comunità. Pochi minuti di interruzione e riprende la musica.

Le botteghe si susseguono lungo la strada principale e il mercato si apre come un caleidoscopio dentro il quale le forme si mescolano e gli occhi si perdono tra i colori di donne e uomini umili ed eleganti, masserizie ammucchiate a terra e ombrelli che cercano riparo dal sole di mezzogiorno. C’è un bar, un alberghetto, due lustrascarpe, asini che tirano carretti carichi di persone e di piccoli acquisti da portare a casa. Sull’enorme viale che accompagna fuori dalla cittadina ci sono una chiesa e una scuola elementare con un grande orologio (fermo) SEIKO sulla parete di ingresso.


Continuiamo a salire, la striscia di asfalto si inerpica tra curve che sembrano aver schivato i grossi massi caduti dalla montagna e ci fermiamo ad un altro posto di blocco, prima di proseguire tra le montagne. I cammelli portano mezzi barili di ferro come contenitori agganciati sulla groppa e sono già al lavoro per spostare i pesanti carichi di pietre; la cattedrale di San Michele appare sulla collina, un luogo sicuro che domina la valle e protegge i suoi lavoratori. Le euphorbie raggiungono metri di altezza con enormi candelabri che stanno per esplodere nella fioritura, i fichi d’India promettono frutti abbondanti che fremono tra le spine e le agavi spingono prorompenti tra le rocce. Il villaggio di Degra Mereto con la chiesa di San Francesco d’Assisi fa da contrappunto sulla collina di fronte e i primi sicomori svettano maestosi verso il cielo.

Ci stiamo avvicinando al Grande Sicomoro storico (proprio quello che compare sulla banconota da 5 nakfa): appare imponente nonostante la distanza, in tutta la sua maestosità. È come un vecchio saggio, al cospetto del quale bisogna avvicinarsi in silenzio e con rispetto, ossequiosi. Sotto il suo grande ombrello il canto degli uccelli dal piumaggio nero e blu, che affollano rumorosamente i rami ma sono pressoché invisibili, sembrano cinguettare le raccomandazioni da ascoltare con attenzione. Il grande albero porta il mio pensiero all’amico Nerio, della cui partenza ho appreso ieri, in un raro e traballante collegamento internet (è quasi impossibile comunicare in tutto il Paese). Penso che avrei voluto raccontargli questa bellezza e molte cose ancora, penso che avrei voluto condividere con lui altre scoperte, quelle che lui sapeva scovare nel mondo della cultura e dell’arte. Penso che la ricchezza di una vita siano anche gli incontri e le amicizie che si hanno il privilegio di fare.

Potrei stare sotto queste fronde contorte per ore, ad ascoltare secoli di storia e a respirare pace, accarezzata da una brezza che profuma di aria pura e di divino. Mi chiedo se in qualche modo questa natura meravigliosa, tenti di offrire la sua bellezza, come ricompensa ad una terra di sofferenze e povertà. C’è un altro sicomoro, poco lontano, sotto il quale è stato costruito un anfiteatro di mattoni, è un luogo di ritrovo che dona un’ombra generosa.

Ripartiamo costeggiando le montagne, immersi in un paesaggio brullo di acacie spinose e bassi arbusti dalle timide fioriture gialle, dai quali sbuca un ragazzino che esibisce un sacchetto colmo di uova. Da oltre due ore abbiamo incrociato un unico veicolo, un pickup Toyota carico di persone anche nel cassone (nessun mezzo viaggia semi-vuoto in Africa!).

La strada per Cohaito è ancora lunga, i terrazzamenti disegnano geometrie ossute che si perdono nel grande altopiano come costole calcificate di antichi scheletri. Gli eucalipti cercano di elevarsi frondosi e leggeri; nelle morbide pieghe del paesaggio c’è un’unica strana altura che spicca come un grosso dente aguzzo, un masso solitario. Dove passa il tubo blu che porta il prezioso oro liquido, l’acqua, i campi brillano di coltivazioni e pascoli e il bacino riflette lo stesso blu della piccola chiesa dipinta di fresco, tra bambini che zappano e donne che seminano. Un vecchio con un fagotto portato sul bastone appoggiato alla spalla cammina dentro il solenne viale di jacarande fiorite che impreziosiscono il terreno con un effimero tappeto di petali color lavanda.

Poi di colpo la striscia di asfalto diventa un tortuoso percorso tra profonde buche e grossi sassi, proseguiamo a passo d’uomo, il paesaggio è un inseguimento di forme ora appuntite, ora piane, ora aride come crateri.  Nella breve attesa di Ibrahim possiamo osservare la moschea illuminata dal sole del pomeriggio, delineata contro le montagne all’orizzonte, è l’unico edificio pitturato di fresco e ben costruito. Ci stringiamo per fargli spazio mentre lo ascoltiamo raccontarci la storia di questo luogo.

Cohaito, a 2500 metri di altitudine su uno spettacolare altopiano ai margini della Rift Valley etiopica e dominato dalla vetta più alta d’Eritrea, Emba Soira (o Sowea, 3018 m), è abitata quasi esclusivamente da musulmani, otto sono le moschee sparse nell’altopiano e mille gli studenti che arrivano alla grande scuola del villaggio. «Si vive in pace, qui e in tutta l’Eritrea non ci sono scontri religiosi», risponde Ibrahim, quasi stupito, cercando di soddisfare la nostra curiosità. Ed è di vera pace il suo messaggio, che non trova ragione alla nostra domanda.

Siamo risaliti dal cuore della montagna, da un percorso di spettacolare bellezza tra strapiombi e grotte dove si conservano antiche pitture rupestri risalenti al VI secolo a.C.. Le colonne della città axumita di Coloe (narrata leggendariamente come “la casa della regina di Saba”) si inseriscono nella verticalità dell’alto minareto sigillato da una grande mezzaluna. Coloe fu un’importante tappa sulla rotta commerciale tra il porto di Adulis e Axum in Etiopia, al centro di rotte marittime e terrestri che univano Mediterraneo e Oceano Indiano, dove viaggiavano le ricercate merci esotiche quali incenso, spezie, pietre preziose e avorio. Coloe era già descritta nell'antico documento del I secolo d.C. "Periplo del mare eritreo" che riportava le rotte di navigazione del Mar Rosso, fino al Golfo Persico e all'Oceano Indiano.

I resti dell’antica diga di Sahira, realizzata in blocchi squadrati di pietra nera, segnano il passaggio dei veloci saluti a Ibrahim. Siamo in Ramadan e il sole è quasi sceso sull’orizzonte, fra pochi minuti si potrà interrompere il digiuno quotidiano.

Sarà un lungo ritorno verso Asmara, dopo una notte ad Adi key, dove i ragazzi del collegio cercano musica e divertimento sotto le finestre del piccolo albergo che ci ospita. La tivù rimane uno dei pochi diversivi nel buio assoluto della sera, come ci racconta anche il nostro autista Tesfai, e dal barbiere, che ne ha una proprio dentro la bottega, si accalcano alcuni ragazzi mentre lui fa il taglio ad un cliente in poltrona. Fra le pochissime luci, uno schermo alla parete di un bar rischiara una sala con un vecchio biliardo, tutti seguono la partita di calcio, compresi i ragazzini accalcati all’esterno e incollati alla vetrata.

Il rientro ad Asmara porta con se il piacere di ritrovare un luogo già conosciuto, anche se per il breve tempo dei pochi giorni passati. La capitale eritrea è una bella città, racchiude storia, religione e vita quotidiana attraverso le architetture che ne hanno plasmato l’identità forte che oggi conosciamo.

Siamo fortunati, il nostro permesso previsto per due giorni fa, viene accettato comunque, possiamo entrare al cosiddetto Cimitero dei carri armati, un luogo che sta divenendo un vero e proprio museo a cielo aperto, quasi una enorme e articolata scultura pesante del metallo contenuto nei vecchi mezzi arrugginiti. È finito dentro qui di tutto: vecchi tram, vetture oramai storiche, tantissimi mezzi militari, un carro armato mitragliatore che porta ben visibili i segni dei proiettili sulla fiancata. Tutto è lì a narrarci la storia, stratificata nei cumuli di ferro che raggiungono parecchi metri di altezza, immobili ad arrugginire alle intemperie. Sono lì, a raccontarci le strade percorse dal denaro che la nostra società produce, ammassi di (fu) ricchezza che portano, oltre a quelli del tempo, i segni della guerra (anzi, sicuramente più d’una). Al cimitero è una sfida a chi resiste di più, tra i grovigli di fichi d’india che crescono rigogliosi sotto il generoso sole africano e le lamiere accartocciate, contro un cielo che profuma di bellezza in un blu quasi accecante.

Alla Cattedrale ortodossa di Santa Maria (edificata durante il periodo coloniale e Patrimonio UNESCO dal 2017 insieme alla città di Asmara) una donna si appoggia all’enorme portone con le mani aperte e la fronte china. Sul cancello replica un uomo che più volte compie l’antico gesto di preghiera, ripetuto oggi anche dai ragazzi con lo zaino sulle spalle e le magliette dei calciatori, che arrivano scherzando fra loro, ma non mancano la sosta, seria e composta, in quel tanto fuggevole quanto importante attimo di umiltà e fede. Poi il giorno prosegue nel suo ritmo di cose conosciute: chi verso la scuola, chi in qualche minuscola bottega, chi verso lavori d’ufficio o a fare dolci squisiti in una pasticceria del centro, su quel Viale Libertà che suggella il desiderio di un popolo, testimone del passaggio della Storia anche attraverso i nomi avvicendati sulla targa della grande strada.