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Eritrea, tracce di storia italiana

Alla stazione dei treni di Asmara il tempo è cristallizzato, immobile dentro a quell’ultima partenza. Oggi non si muove più nemmeno la littorina, utilizzata fino a qualche anno fa per i pochi turisti che percorrevano un paio di manciate di chilometri sui quei robusti binari in ferro costruiti dagli italiani. E di quello che oggi può definirsi un “museo”, visto che per accedervi è necessario pagare un biglietto del costo di dieci dollari, stamattina non si trova il custode. Nessuna chiave aprirà la malridotta rimessa dove giace il vecchio treno e lo potrò solo sbirciare da una piccola fessura. Non mi resta che infilarmi tra i vagoni esausti che arrugginiscono avvolti da bouganvillee ed erbacce, e raggiungere il capannone di riparazione dall’aria lugubre e annerita dal tempo. Gli attrezzi sono ancora lì, come se l’ultimo operaio avesse appeso il cappello al chiodo, pronto per tornare l’indomani. 

I locali chiusi della sala d’attesa oggi sono utilizzati come riparo di fortuna e una sbiadita Fiat, oramai incistata nell’asfalto e avviluppata dalla vegetazione, rimane anch’essa immobile davanti all’ingresso del Railway Club, dove gli scaffali a specchio sono riforniti di liquori “ASMARA”. Due file ordinate di Dry Gin, Vodka Lemon e Zibib extra, prodotti nello stabilimento, nato come birreria (dove si producevano le stesse bottiglie di vetro), fondato nel 1939 dall’italiano Luigi Melotti ed ampliato come distilleria per la produzione di cognac, amari, cherry brandy, crema cioccolato e il famoso Anice, come testimoniano le antiche etichette “MELOTTI” dell’epoca. Il birrificio fu nazionalizzato dal regime etiope durante l’occupazione ed ereditato poi dal governo eritreo nel 1991, divenendo oggi una proprietà tra lo Stato e qualche piccola azienda privata.


Asmara, ma anche il resto del paese, è piena di storie italiane, ancora oggi visibili nelle insegne delle botteghe, nei bar, nelle pasticcerie, nelle fabbriche come il Cotonificio Barattolo alle porte della città, che espone un cartello del Factory Outlet “DolceVita, the italian lifestyle”. E nei tantissimi edifici del periodo fascista, che hanno segnato un’immagine di Asmara riconosciuta dall’UNESCO nel 2017 come città Patrimonio dell’Umanità, per le sue architetture moderniste e razionaliste, realizzate durante il periodo coloniale italiano. Camminando tra le sue strade, oggi, sembra di ritornare all’Italia dei primi del Novecento: una serie di edifici rigorosi, ma anche bizzarri, ha visto l’impegno di architetti, ingegneri e tecnici italiani, trasferiti nella colonia africana ai tempi di Mussolini. Un lunghissimo elenco di nomi che hanno poi imboccato strade difficili e diverse, chi costruendo nuovi percorsi di vita, chi ritornando in patria come profugo nei territori del litorale romano. Sono storie sconosciute alla maggior parte di noi. E quel Viale Mussolini, via principale della capitale, costruito nel 1927 per ospitare rigorose parate nei suoi 40 metri di larghezza, diviene oggi Viale Libertà (Harnet Avenue).


Il cammino dei binari scende sulla strada che dalla capitale raggiunge il mare. Un percorso che precipita dai quasi 2400 metri di Asmara, fino all’antico porto di Massaua, oggi patinato dal decadente fascino di un tempo coloniale lontano, percettibile nei vecchi legni dei balconi di stile ottomano, e nell’aria satura di calda umidità. Al bar sotto i portici, talmente malridotti che sembrano poter cadere da un momento all’altro, si beve un “macchiato”, oppure una birra, si guarda la tivù. Trasmettono il campionato di calcio.

Quel percorso, imprescindibile per lo sviluppo commerciale della colonia, vide nascere un’altra arditissima impresa: era il 1935 e la ditta Ceretti & Tanfani (fondata dai due ingegneri pionieri della tecnica dei trasporti su fune), realizzò la Teleferica Massaua-Asmara, un’opera colossale ultimata in soli due anni dalla progettazione. Poteva trasportare 30 tonnellate all’ora nei due sensi, ad una velocità di 9 chilometri orari, superando le difficoltà di un lungo viaggio sulle tortuose strade dell’altopiano. Fu un capolavoro di ingegneria unico al mondo per la sua lunghezza di 74 chilometri e funse anche per il traposto di persone (il costo era di 6 lire per la salita e 2 lire per la discesa).


Il porto è lì, a pochi metri si alza verso il cielo la grande nave dalle scritte cinesi che attende di essere scaricata, sullo sfondo di enormi e colorati container che imprigionano, sulla lingua finale del porto, quel che rimane dell’antica moschea risalente agli inizi del VII secolo. Un tempio considerato la prima moschea in Africa, costruito dai seguaci del profeta Maometto, arrivati nell’attuale Massaua per sfuggire alle persecuzioni dei musulmani nella città della Mecca.

E poi via, con piccole imbarcazioni a motore verso le sperdute isole nel Mar Rosso, quasi tutte disabitate e quasi tutte di origine corallina. Le Dahlak sono uno degli ultimi paradisi marini dove non ci sono strutture alberghiere, ma vengono allestite delle tende confortevoli per i pochi turisti che le raggiungono e dove in questo periodo nidificano le sule piediazzurri. Uno spettacolo di comunione con la natura, ancora inviolata, e il silenzio, rotto solamente dal suono del mare e dai grugniti gracidanti delle madri che danzano roteando nel cielo per proteggere i loro piccoli gonfi del primo pelo bianchissimo.

 

Per ogni isola serve un permesso specifico e noi, tra le altre, potremo scendere sull’isola Dohul, nel canale nord-est, dove all’orizzonte della sponda poco lontana dal villaggio, si ergono due vecchi carri armati, tra la postazioni di artiglieria italiane che avrebbero dovuto proteggere da un eventuale attacco via mare. I lunghi cannoni, ricoperti di guano, sono testimoni silenziosi insieme ai molti relitti di navi italiane inabissatesi nel golfo dell’isola principale, Dahlak Kebir, nella primavera del 1941 e affondate nei combattimenti contro le unità britanniche. La gittata dei lunghi cilindri porta lo sguardo al mare e si perde in un orizzonte silenzioso, la ruggine ne ammanta la superficie e i simboli italiani, scritture indelebili su quelle antiche macchine da guerra, raccontano di orgogli non condivisi. I bambini giocano sulla spiaggia opposta, dove arrivano le barche dalla pesca, tra i cumuli di reti da riparare e i capanni dei pescatori, lontani dai quei cannoni che rimangono malconce ed inevitabili presenze, abbandonate al loro lento degrado.  

 

Un'altra storia poco conosciuta, quella del mare, superata dalle più celebri battaglie di terra, delle quali potremo vedere i resti nei vari luoghi commemorativi, dal cippo di Dogali, al Sacrario italiano di Adi Quala in cui riposano molti dei morti nella battaglia di Adua del 1896. Sull’Ossario, che conserva i resti recuperati di quasi quattromila caduti nella prima campagna d’Africa, sventolano il tricolore da un lato e la bandiera eritrea dall’altro. La colonna di accesso, retta su due grandi fasci littori, ne ricorda l’inaugurazione del 1939 con il titolo di Vittorio Emanuele III e un obelisco in granito svetta nel cielo. Ai quattro lati, tra le citazioni: “Il vostro esempio segnò alla nuova Italia le sue mete imperiali”. Un magro uomo dall’aria seria e nessuna parola arriva ad aprire la porta della cripta, un accesso al fondo di una scala nel lato posteriore del monumento. All’interno c’è un quaderno per i visitatori, posato sopra un alto leggio e uno straccio, sull’altare un crocifisso. Guardo verso la sommità interna, è dipinta la parola PAX, traballante nella scrittura, sullo sfondo celeste: penso qualche minuto prima di lasciare un commento e il mio nome.