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Nagorno Karabakh, sotto quale bandiera: la vita dopo la guerra

«Ho fatto le pulizie di casa, ho innaffiato i fiori e ho chiuso la porta a chiave. Poi, siamo partiti.»

Dopo un isolamento di oltre sette mesi e nell’indifferenza della comunità internazionale, l’assedio da parte dell’Azerbaigian culmina nell’attacco militare che porterà alla firma del decreto di scioglimento del Nagorno Karabakh entro fine 2023.L’ultima guerra è durata due giorni, i morti sono stati oltre duecento. L’occupazione azera spingerà la migrazione degli oltre centomila cittadini armeni dell’Artsakh a cercare riparo in Armenia. E diciamocelo: quanti di noi sanno dov’è il Nagorno Karabakh e cosa stava succedendo, proprio lì, in questi anni? Baku ha bloccato anche gli ultimi aiuti umanitari dei camion della Croce Rossa e in Nagorno Karabakh mancano cibo, farmaci, elettricità e benzina. Non c’è riscaldamento e scarseggiano i beni primari, i negozi sono vuoti ed è impossibile affrontare l’arrivo dell’inverno.

L’unica strada che collega l’Artsakh con l’Armenia, il corridoio di Lachin, è controllato con un checkpoint azero che decide le sorti di chi tenti di attraversarlo.

Tornano alla memoria storie di diritti non riconosciuti, di popoli traditi dalle logiche economiche regolate dalle grandi potenze mondiali. Dal 1 gennaio 2024 l’Artsakh, le cui origini trovano menzione nella lingua urartea e nell’antico Regno d’Armenia, svanisce dentro quelle vecchie e robuste Lada, cariche di vite in frantumi e di ricordi, in fuga dopo una resa che non lasciava altra possibilità. Vite stipate dentro furgoni e cassoni di camion, adulti con lo sguardo smarrito che devono velocemente riassumere la propria vita in una borsa e bambini impauriti che cercano di ripararsi sotto teli di plastica, in quel breve viaggio verso un ignoto che sanno essere definitivo. L’autoproclamatasi Repubblica d’Artsakh finisce nel compimento da parte dell’Azerbaijan di quella che è già stata definita un’operazione di pulizia etnica contro la comunità armena del Nagorno Karabakh.

 

Lena è una giovane donna, matura e responsabile, abile cuoca e abituata a governare una casa. Lo intuisci da come si muove e dalla tavola imbandita che ha preparato per noi. Nonostante l’apparecchio ai denti e i pantaloncini corti la facciano sembrare una ragazzina spensierata, i suoi occhi rivelano le ferite di chi ha già dovuto affrontare molte difficoltà. Il fratello più giovane trova con fatica la forza di parlare e il suo sorriso è spento e rassegnato. Il padre porta addosso gli occhi della tristezza e di una malinconia incolmabile, di una moglie persa per la malattia e del peso di guardare - impotente - i suoi figli fuggire da una vita che avevano costruito giorno dopo giorno, con le fatiche di anni. Oggi, a Erevan, lavora solo lui, i figli ancora non trovano un’occupazione, nonostante sia oramai trascorso quasi un anno dal loro arrivo. Il suo sguardo dignitoso, forte e rigato di solchi profondi, sembra trattenere lacrime di dolore e faticosa accettazione.

Erevan è una città giovane e in fermento, ma trovare un lavoro non è cosa semplice. Lo spettro di una minaccia azera non abbandona quel che rimane del piccolo stato che deve ancorarsi forte alle sue montagne, alle radici dei suoi alberi e della sua Storia, per resistere alle pressioni russe e di chi lo vorrebbe spianato dal passaggio panturco.

Lena e la sua famiglia vivono ora tutti insieme in un palazzone sovietico che si arrampica verso il cielo in cerca d’aria e di luce. Uno di quelli altissimi, diciotto piani che a guardarli procurano vertigine. Le finestre si rincorrono dentro ad oblò affiancati come bolle di sapone pronte a dissolversi nell’aria, ma che sono invece di cemento pesante e cupo. Guardi verso il blu e ti sembrano non finire mai. Qualcuno ha rattoppato quei buchi nel tentativo di guadagnare pochi centimetri di luce e raggiungere così le montagne. I panni stesi sfilano sulla rotaia a ridosso dell’edificio, segni di vita che scorre dietro quei vetri ingrigiti. Solo al primo piano i blocchi tondi di cemento sono messi al sicuro dietro graticci di ferro che quasi ingentiliscono l’aspetto squadrato dell’architettura sovietica.

Per salire al decimo piano dovrò prendere un ascensore, sporco e dall’aria strapazzata, il muro attorno al pulsante di chiamata è unto di manate sovrapposte negli anni, sverniciato e consumato. Le piccole porte, che si chiudono affiancandosi malamente, sono incrostate di vecchie pubblicità e annunci, o di ciò che ne rimane e che non si è riusciti a scollare. La parte bassa, annerita, fa pensare al fuoco che forse l’avrà avvolto in un guasto o in un incendio. Avrei preferito fare le scale, se pur tantissime, ma non mi sembra questo il momento giusto per scollare irrispettosamente le mie paure. Abbasso lo sguardo, mi impongo un pensiero che mi allontani dalla piccola trappola claustrofobica, penso che ci vorrà poco per arrivare all’appartamento di Lena.

L’ascensore si apre con un movimento meccanico lento, scendo. Lungo il grigio corridoio, l’anta del contatore elettrico è rimasta sganciata e rivela un intrico di fili aggrovigliati e saldati grossolanamente. Spicca un nuovo pulsante generale, di plastica bianca ancora inviolata e con un’unica leva nera in posizione on, stride nell’insieme. In fondo al corridoio c’è una porta color rosso granata rappezzata da poco. Una targhetta con il numero 58 e un disegno che raffigura il monte Ararat, lanciano una scintilla di vitalità e di orgoglio nel vuoto dell’edificio che appare senza vita e rivela solo segni patinati di sporcizia e di triste passato. Sul vecchio scaffale condominiale di ferro, completamente vuoto, è riposta un’unica valigia di cartone color cuoio, con la maniglia di plastica e le chiusure a scatto, come usavano i miei nonni. Immagino le storie trasportate all’interno di quel piccolo e rigido spazio, sanno di malinconia, muffa e imposizioni. L’affaccio sulla scala centrale, in cemento di più recente fattura, riporta ad un tempo lontano, un’immagine immobilizzata dentro uno sbiadito scatto polaroid.

Quasi cent’anni di storia e di architettura sono passati di qui, come ci ricorda la grande statua dell’architetto Aleksandr Tamanian (1878-1936) ai piedi della Cascade (simbolo, incompiuto, del centro di ritrovo cittadino), nel suo piano generale di far divenire Erevan una capitale-giardino.


La famiglia di Lena è stata fra le ultime ad uscire dal Nagorno Karabakh nell’esodo del suo popolo, era la fine di settembre scorso 2023 e una lunga coda di auto incolonnate si dirigeva verso il “confine” armeno, proprio come mi fa vedere in una traballante ripresa fatta con il cellulare, l’ultimo collegamento che si allontana dal suo mondo, da quella terra che esplodeva di frutti maturi e terre fertili, che loro stessi coltivavano quotidianamente.

«In tre giorni sono uscite più di centomila persone, chi non ce l’ha fatta è stato preso e messo in carcere. Non c’era alcuna alternativa.» 

«Stanno distruggendo le chiese e profanando le tombe con la costruzione di alti palazzi…». Dicono sia già presente una base militare israeliana. Dopo i primi aiuti del governo armeno, la nuova vita della famiglia di Lena inizia in questo appartamento, il cui affitto mensile è di 200 mila dram, circa 500 dollari.

I bicchierini per il cognac, perlescenti e bordati d’oro, incisi alla maniera boema, forse fanno parte di un corredo che sono riusciti a portare con sé. La tavola è una festa colorata, tutti i mobili del piccolo locale sono stati sistemati per divenire un lungo piano di appoggio e inventare le sedute necessarie. È ricca di antipasti, come si usa qui, e non mancano verdura fresca, pomodori (che profumano di pomodori!), olive, cetrioli e formaggi di gusti diversi, sia di mucca che di capra. Poi c’è un’ottima peperonata e gli squisiti rotoli di pane tipici dell’Artsakh, gli Jingalov Hats, cucinati in casa con un ripieno di erbe di campagna. Non mancherà il piatto principale a base di carne, bollita insieme a cipolle e carote, e nemmeno i succhi di frutta.

Il gata è squisito, riccamente farcito di noci e mandorle e tagliato a morbide losanghe. Lena ha imparato a fare i dolci dalla mamma, morta di cancro solo un paio di mesi fa, e sepolta a Erevan (non nella tomba di famiglia, rimasta in Nagorno Karabakh ad attendere un improbabile ritorno). Il sapere e la propria storia sono le piccole eredità preziose che accompagneranno il futuro di questi ragazzi, brutalmente sradicati dalla loro terra. La prima fetta di gata finirà in un lampo e non saprò resistere alla seconda.

Il padre prende l’immancabile bottiglia di liquore e, come da tradizione d’obbligo per ogni famiglia, ne offre un goccio prima di iniziare il pranzo. «Mi piace mangiare con il cognac», dice abbozzando un sorriso. Alziamo i piccoli calici panciuti, osserviamo sgomenti come questa famiglia cerchi di affrontare un cambiamento tanto devastante e incognito. I loro sguardi sono difficili da sostenere.

«Barov desanq» (ci siamo incontrati per il bene), brindiamo.