Skip to main content

Un pallone nel deserto (Mauritania)

Nel paesaggio di ocre dorate, il blu s’impone di macchie brillanti. Tutto è blu: il cielo striato di nuvole agitate e veloci; le tuniche (draaboubou) dei pastori che stanno governando le capre nel recinto; i tetti di lamiera della case che riparano dal sole e dalle intemperie. Si dorme tutti insieme, le famiglie sono numerose e ci sono bambini dappertutto. Sono blu anche gli enormi cuscinoni di grossa plastica che contengono riserve di acqua negli angoli più remoti del territorio sahariano. Per uomini e animali che, comunque, incontrano spesso la morte nell’aridità del deserto. Il cibo è pochissimo e l’acqua non sempre disponibile, la magrezza delle bestie che vagano tra le sabbie riflette tutta la povertà di questi luoghi. Il quotidiano andare vive di un destino che sembra già scritto e immutabile.


Non è sempre facile essere ben accolti, il retaggio di un passato coloniale e la schiavitù forse non sono completamente dimenticati e dall’uomo bianco si prende un certo distacco, forse fa ancora paura. Le donne sono a volte reticenti, spesso timide e poco abituate allo scambio con presenze estranee. Poi scorgiamo un’auto parcheggiata a fianco di un grande tenda, il segnale di una famiglia abituata e muoversi, magari verso la città. I bambini (ne conto dieci, tutti maschi) stanno giocando con un vecchio pallone sgonfio e spelacchiato, che vola goffamente nell’aria e ricade nella sabbia che ne attutisce rimbalzi e cadute. I bambini corrono carichi di vitalità ed energia, molto più veloci del malconcio pallone, incuranti del caldo torrido e della temperatura bruciante sotto i piedi scalzi.

I pochi uomini rimasti all’ombra della tenda, non usciti per lavorare, sembrano disponibili all’incontro. Ci avviciniamo timidi, offrendo solo qualche sorriso e un saluto ossequioso. In pochi minuti siamo invitati all’interno per un tè. Lo preparerà per noi il giovane uomo che vive nella casa e si occupa di prendere l’acqua, cucinare, spicciare piccole faccende domestiche. Una sorta di scambio di servigi, in cambio di sussistenza. “Schiavo” è la parola tradotta per noi, tra un po’ di francese e un po’ di italiano.

La schiavitù, di fatto abolita in questo paese solamente nel 1981 (e dichiarata reato contro l’umanità nel 2015), ancora oggi esiste in forme diverse. È una prassi ancora diffusa, e tollerata, insita nel rigido sistema castale, che definisce diritti e doveri per nascita. Gli Haratin, il gruppo etnico di pelle scura emarginato come classe inferiore, è tutt’oggi discriminato e sfruttato nei lavori considerati sporchi o degradanti dai musulmani di origine araba e berbera.

La casa è formata da un unico grande ambiente chiuso da rete di ferro come una enorme gabbia con un portoncino di accesso; delle pedane di metallo creano una struttura rialzata da terra ammorbidita e isolata da stuoie di canne di bambù; coperte e grandi cuscini sono pronti per la notte e un ripiano costruito con cassette di plastica contiene pentole e piatti, mentre si cucina all'esterno su piccoli fuochi a terra. I grandi teli che rivestono la struttura servono come riparo dalle tempeste di sabbia e dal sole e vengono alzati e arrotolati quando l’ombra e l’aria più fresca portano ristoro alla calura del deserto. Il baule di ferro, chiuso da un lucchetto, contiene i beni di famiglia e l’unico oggetto prezioso è un contenitore dipinto con motivi tuareg. Null’altro.

I bambini sospendono il gioco e ci raggiungono all’interno, dove i due più piccoli, nudi, si stringono al ventre della madre. Gli occhi della curiosità vagano reciproci fra noi e loro, cerchiamo un breve dialogo fatto di gestualità e sguardi. Alessandra ritorna alla jeep per prendere un pacchetto di zucchero per la signora di casa e uno dei nuovi palloni acquistati al mercato, io rimango ad osservare il cambio di sguardo dei bambini che già in lontananza hanno capito cosa sta per succedere. Non perdono di vista nemmeno il più piccolo dei nostri movimenti e i loro visi si trasformano con il passare dei secondi per esplodere in un sorriso di felicità intrattenibile. Vedono il pallone nuovo tra le mani di Alessandra, che ritorna verso la tenda affondando i sandali nella sabbia bollente. Hanno capito che sarà un regalo per loro. Non ricordo il breve tempo intercorso tra l’arrivo del pallone, il benestare della donna anziana, le urla concitate dei bambini già rapiti dal gioco, che correvano e calciavano a piedi nudi. Sono attimi, indelebili, di gioia.