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ALGERIA, verso il deserto. Incontro con il mistero del Tassili.

Nella libreria di casa ritrovo, spesso, volumi acquistati nel tempo, libri che hanno acceso scintille di viaggio anche senza l’idea di una imminente partenza. 

Riapre l’area algerina al sud, verso il confine libico. Desidero arrivarci il prima possibile, prima che torni ad essere meta di un turismo vitale per lo stesso paese e la sua gente, oppure nuovamente chiusa.

Il Parco Nazionale del Tassili (Tassili n’Ajjer, la montagna della tribù tuareg Ajjer), è un altopiano di arenaria nel profondo sud dell’Algeria. La parete rocciosa che ne raggiunge la sommità nasconde scenari straordinari e tesori raggiungibili solamente a piedi o a dorso d’asino. Montagne ancora una volta testimoni della Storia, immobili e inaccessibili, formazioni architettoniche plasmate dal vento e dalle piogge. Le incredibili pitture rupestri rinvenute tra i massi di arenaria raccontano il periodo umido africano (il cosiddetto Neolitico Subpluviale), quando il Sahara era una florida savana di ricca vegetazione, abitata da numerose specie animali. Lo rivelano le pitture e le incisioni che sono valse al Tassili l’appellativo di “Cappella Sistina” del Sahara, un museo a cielo aperto che racconta la vita di uomini e animali, di pascoli, mandrie, società organizzate. I famosi “carri al galoppo volante” dei Garamanti, popolo di cui Erodoto menzionava commerci carovanieri e attività pastorali, narrano di quadrighe, di mercanti e cacciatori. E poi caverne e tumuli, misteriose tombe pre-islamiche, stratificazioni archeologiche di civilizzazioni che svelano 10.000 anni di storia dell’umanità.

 

Mi perdo nel vecchio volume di Henri Lhote, Alla scoperta del Tassili, una prima edizione italiana del 1959 che ho trovato poco prima di partire. Come spesso mi accade, non voglio “inquinare” la partenza con troppe immagini. Cerco di tenere velato, per quanto possibile, l’incontro. Provo a documentarmi, come succedeva nel passato, solamente attraverso i libri, lasciando alle immagini occhi nuovi.

E ancor prima di partire, so già che dovrò tornare: l’esplorazione di Lhote si addentra nella falesia più impenetrabile, spesso sconosciuta agli stessi Tuareg che non si siano avventurati a piedi, sulla sommità della parete rocciosa, nel percorso che richiede diversi giorni di cammino. Il mistero degli “uomini dalle teste rotonde”, simili a marziani, e il culto del “Dio di Sefar”, tra teorie di alieni e (più plausibili) riti sciamanici e tradizioni tribali, so che mi porteranno nuovamente là dove sto per arrivare. In questo primo viaggio verso il mistero del Tassili, rimarremo tra le dune, alla base della grande roccia, esplorando caverne, anfratti, uadi e miracolose pozze d’acqua.


Abbiamo lasciato Algeri troppo velocemente, ma i giorni sono pochi e i piani di viaggio prevedono di raggiungere direttamente il deserto. Djanet, porta di accesso alle sabbie del sud, si trova a 2500 km dalla capitale algerina, collegata da un’unica, lunghissima, strada asfaltata e da regolari voli di linea della compagnia aerea di bandiera, Air Algerie. È più lontana Djanet da Algeri, di quanto non lo sia la stessa Algeri da Roma.

L’arrivo con il buio profondo della notte non consente di focalizzare i contorni di questa piccola cittadina-oasi affacciata sul deserto, un palmeto accarezzato dalla sabbia portata dal vento. L’unica luce notturna che incontriamo è quella di un’area militare, interamente composta da anonimi container. Siamo in una zona “calda”, a ridosso di confini sensibili, tra Niger e Libia. Abbiamo dovuto registrare la nostra presenza ed essere autorizzati a muoverci in quest’area del paese.

Le poche ore di sonno nel piccolo albergo di Djanet mi occuperanno, invece, a disfare la sacca completamente bagnata dal diluvio della partenza. 

Il deserto ci accoglie subito, il sole anche, una luce potente inonda il paesaggio e i nostri corpi. Penso che gli abiti bagnati asciugheranno in fretta. Cerco gli occhiali scuri e mi avvolgo una lunga fascia per coprirmi testa e capelli, tentando di imitare il modo di portare lo chèche tuareg, ovviamente senza riuscirci e aggrovigliando malamente il tessuto. Migliorerò di giorno in giorno con l’aiuto di Ahmed.

Pochi chilometri di asfalto, un cartello di “attenzione attraversamento dromedari” e già dobbiamo sgonfiare le gomme dell’auto. Ovunque si volga lo sguardo si incontra uno scenario straordinario: faraglioni pietrosi rilucenti al sole, grossi sassi alternati a ciuffi di euphorbie spinose e colline rocciose che si appoggiano contro il cielo; il blu è intenso come è difficile ricordarne. L’orma di un lupo porta lo sguardo verso ammassi rocciosi che sembrano castelli medievali diroccati, dove la montagna restituisce possibili ritrovamenti di oro e argento.

La falesia del Tadrart accoglie le morbide dune del deserto e riporta la poesia tumultuosa di un paesaggio in continuo mutamento, attraversato da presenze invisibili che scompaiono con l’arrivo della luce. Il deserto vive di esistenze notturne, piccole, grandi, striscianti, volanti e zampettanti sulla sabbia. Un mondo misterioso che cercherò di riconoscere ogni mattina, come un appuntamento di incontro quotidiano, scrutando le definite, ma effimere, impronte sulla sabbia inviolata. La “montagna rossa” (Tradart Rouge) racconta il millenario lavoro dell’erosione, artefice di un paesaggio incantato, oltre l’immaginario. Qual è la forma del deserto? Non c’è solo sabbia, non sono solo dune. Sono pinnacoli, colline, architetture dalle forme curiose, archi, cattedrali, lastre sottili sfogliate nel porfido grigio, in quella che può sembrare un’esplosione della crosta terrestre. Poi caverne, pareti di arenaria, stravaganti formazioni. Ogni luogo viene nominato assimilandone la forma più verosimile… ricorderemo l’elicottero, il maiale, l’elefante, e così via…

 

Ahmed ha iniziato il rituale di preparazione del tè, la grande borsa è già vicino alla stuoia, mentre Barka accende il fuoco in poche e sapienti mosse, con i legni che raccoglie da terra quotidianamente. Le fiamme rischiarano appena i volti degli autisti, stesi a riposare sui materassini in finta pelle. Fatico ancora a riconoscerli, se non fosse per il vistoso chèche colorato che, soprattutto Ahmed, cambia di giorno in giorno, in un piccolo vezzo di personalità bizzarra. Selim, il cuoco, ha già organizzato la cucina e il profumo di aglio arriva alle narici, nonostante la vastità che ci circonda. Un’organizzazione precisa, di gesti semplici e acquisiti in lunghe esplorazioni di squadra, come una piccola famiglia, una tribù che ritorna nomade e ritrova il proprio ritmo ancestrale per il breve tempo di un viaggio. Per questi uomini è l’occasione di tornare tra le sabbie e vivere nella dimensione di libertà strettamente allacciata alla loro origine.

La preparazione del tè segue un rituale preciso, di gesti che si avvicendano spontanei: le grandi mani di Ahmed spianano qualche centimetro di sabbia di fronte a lui. La nera teiera viene risciacquata e l’acqua versata al suolo mi sembra un’offerta alla madre terra, ma in realtà serve a non sollevare la polvere e a lisciare l’appoggio. Il treppiede di ferro è posizionato sul fuoco e le fiamme sfrigolanti nell’aria che si fa buia, avvolgono velocemente la grande teiera, mantenendo un equilibrio che sembrerebbe impossibile.

 

Per il primo campo serale ci accoglie l’anfiteatro naturale di El Berdj. Le montagne, materne e protettrici ci riparano dal vento, mentre la luna sta salendo attraverso la fessura tra le due pareti rocciose. Lo spettacolo mi immobilizza, avvolgendomi di meraviglia e di silenzi (umani). I suoni che mi trasportano nell’altrove sono quelli della natura e delle forze vitali del cosmo. La luna ci seguirà, fedele, per tutto il viaggio e arriverà nella sua forma più smagliante per regalare notti velate di una luce sottile e morbida. È oramai buio, non ho ancora montato la piccola tenda.


La zuppa calda e piccante sarà la miglior conclusione di questo arrivo, mentre il freddo si fa sempre più pungente dopo il calar del sole. Poche le parole in questa prima sera, tutti abbiamo bisogno di un silenzio terapeutico e rigenerativo. Siamo stanchi, estraniati, ancora agganciati alla vita che abbiamo appena lasciato, ma seriamente intenzionati a lasciarcela alle spalle per immergerci in una dimensione di lontananza e di vuoto.

Uscirò nella notte e starò a guardare, la luna rischiara un possibile orizzonte adagiato sulle dune. Sento presenze finalmente libere di muoversi e una forza ancestrale che mi accarezza il cuore, il battito del deserto accoglie i miei ultimi pensieri prima di tentare l’abbandono della mente. È quasi un tuffo di vertigine.

 

Al piccolo museo di Djanet scoprirò che ad accompagnare Lhote nella sua esplorazione, c’era la presenza preziosa di un tuareg, Machar Jebrine, zio della guida che sta guidando noi in questi giorni, il cui viso serio cerca di nascondere l’emozione e l’orgoglio di fronte alla foto posta all’interno di una delle teche di vetro impolverate. Una storia di famiglia che narra la storia del Sahara e ci accompagna con l'esperienza e la conoscenza del movimento delle sabbie e di ogni anfratto che nasconda le centinaia di graffiti disegnati e incisi sulle rocce calde di sole.

 

 

Oggi il Tassili n’Ajjer è un Parco culturale, Riserva della Biosfera e Patrimonio UNESCO. Il privilegio di poter camminare su queste sabbie, e sulla Storia, è percepibile guardando ogni singola duna nella immensa tela di un paesaggio straordinario.

I millenni raccontati da un’iconografia primitiva, riportano l’evoluzione del Sahara attraverso i cambiamenti del clima e i mutamenti di una società in continua trasformazione. Antilopi, bufali, leoni, elefanti, ippopotami, giraffe e infine dromedari, nel significativo adattamento del mondo animale alle condizioni ambientali. La lacrima della “vache qui pleure” (la mucca che piange) ci narra forse di un eden ricco d’acqua, inesorabilmente trasformatosi in un deserto arido e siccitoso?