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HIMALAYA, i costruttori delle strade più alte del mondo

Un boato interrompe l’ultima preghiera dei monaci, abbiamo appena raggiunto il piccolo monastero di Phuktal, arroccato e saldamente aggrappato alla montagna che cela la grotta sacra dedicata a Naropa, grande mistico e monaco buddhista indiano vissuto nell'XI secolo. C’è chi si spaventa, chi trasalisce dallo stato di quasi meditazione, chi sorride cercando nel cielo dei segni che spieghino l’accaduto, già sapendo di cosa si tratti. Il boato di un’esplosione è pur sempre un fragore che inquieta e in quel breve attimo ho provato ad immaginare lo strepito che può fare una bomba, noi lo abbiamo mai sentito?

La preghiera accelera gli ultimi versi e l’ora della mensa irrompe con il suo ritmo incalzante, i ragazzini sono affamati. Nella consueta semplicità dei monasteri buddhisti sono invitata a pranzo senza troppi preamboli e posso sedermi insieme ai monaci per attendere, anch’io, una razione di cibo. Sopportano la mia intrusione con la macchina fotografica, i miei sguardi curiosi, i miei occhi che osservano fissi e quasi intontiti dall’armonia del momento: sono un’ospite da accogliere e sfamare. In un istante mi ritrovo un piatto di carta tra le mani e uno dei piccoli monaci che si avvicina con il pentolone di riso. Si muove svelto, sembra in ritardo, ma è sicuramente la fame che accomuna quasi tutti i ragazzi, a chiedere fretta. I passi veloci dei giovani monaci, inquieti durante l’ultima preghiera, rivelano tutta la freschezza e l’energia della loro età, frementi nell’attesa che l’ultimo mantra sia recitato e consenta loro di muoversi dalla lunga posizione a gambe incrociate.

Una breve occhiata di assenso e il mio piatto è già colmo di riso con il dahl. Il sugo è tiepido, rivela poco delle spezie che arricchiscono e rendono diversa ogni ricetta dei molti tipi di lenticchie. Come ogni volta, tornerò dall’India ricordando le mie preferite. Nell’ultimo viaggio chiesi una doppia porzione di lenticchie nere leggermente piccanti, il cui aroma evocava un buon minestrone veneto! Ma, qui, seduti a terra nel modesto spazio, nella bellezza di una terrazza con lo sguardo sulle alte montagne, si usano le mani per mangiare (pur sudicie dopo una mattina di camminate e appigli tra rocce e un ponte tibetano). Il boccone si prepara schiacciando una piccola quantità di riso dentro le lenticchie brodose, mi destreggio goffamente. Il riso tra le dita è molle, più di quanto si aspetti il nostro palato, e l’impasto con la brodaglia lo rende anche appiccicoso e difficile da trattenere senza farlo scorrere sulla mano (e sulla maglietta…).

Il botto risuona dalle montagne non molto lontane e mi sembra che tutto intorno possa vibrare dopo quell’esplosione. Inconsciamente cerco riferimenti che ne svelino il punto di provenienza, vedo una nuvola sabbiosa che sale nel cielo. Chiudo gli occhi, per quei brevi istanti lascio che l’eco di quello scoppio si infili oltre le mie orecchie. Il corpo si scuote, c’è un lungo attimo di attesa, poi tutto ritorna rapidamente alla normalità e il pasto prosegue come nulla fosse successo.

La mattina dopo partiamo molto presto. Dobbiamo passare prima che inizino a brillare le mine già tracciate dal reticolo di fili gialli che seguono le sonde inserite nelle massicce pareti. Percorreremo il primo tratto della nuova strada che collega la remota valle himalayana attraversata dal fiume Zanskar fino a Leh, il capoluogo del Ladakh, la grande regione indiana nell’estremo nord, tra le catene Karakorum e Himalaya, situata a ridosso di confini sensibili e altamente militarizzati. Attraversiamo una valle che fino a pochi anni fa era raggiungibile solamente a piedi o a cavallo, dove oggi lo stato indiano sta costruendo la nuova carrozzabile sulla quale transitano già i primi pullmini di linea, che serpeggiano seguendo le ampie curve, traballanti e carichi di persone.

Molti tratti sono percorribili attraversando zone franose di massi appena esplosi, sulle pareti della montagna il percorso delle mine è ben delineato e tracciato da fili gialli che seguono le sonde inserite nelle cavità. Un reticolo sapientemente posato, ma che lascia addosso una certa inquietudine, meglio passare in fretta. Gli operai lavorano raggruppati ogni pochi chilometri, il breve asfalto si alterna allo sterrato ancora da realizzare, dove i muri contenitivi a ridosso del vuoto sottostante sono riempiti di cemento lavorato a mano.

Passiamo vicino ai gruppi di operai con la nostra confortevole Toyota, riparati dalla polvere e dal sole. Osservo, a disagio. In quei muscoli tesi a reggere sulla testa bacinelle colme di pietre, leggo lo sforzo; nel sudore che scende sui volti impolverati, la grande fatica. Ci sono anche donne, molte, che nella pausa sferruzzano il lavoro a maglia sedute su un sasso, per terra. Poco oltre, lo strapiombo. Mi chiedo “avranno fame, caldo, necessità di un bagno, avranno mal di testa, una ferita, un pensiero lontano, il respiro affannato?” Non ci sono risposte e la fatica di questa gente va molto oltre lo sforzo fisico.

Uomini e donne sono portati al mattino e lasciati a bordo strada; ripresi la sera per rientrare a casa, sono i più fortunati. Poi ci sono squadre che arrivano sulle strade himalayane per rimanervi l’intera stagione: sono braccia reclutate dalle aree più povere dell’India, dal Bihar generalmente (fu da quelle parti che il Buddha ricevette l’Illuminazione sotto l’antico Ficus sacro, oggi meta di un pellegrinaggio da tutto il mondo buddhista).

I bihari li riconosci dalla pelle più scura, nella consueta gerarchia dove il colore della pelle quasi sempre identifica i ruoli, e dal diverso saluto. Non sarà Jullay, Jullay ad accompagnare il loro sorriso, nella gioia semplice di un buongiorno ricambiato. Passeranno i mesi estivi accampati lungo le strade in costruzione, poche tende saranno le loro case. Ci sono due magliette stese ad asciugare e un bidone dell’acqua rifornito dalla grande cisterna che si arrampica lenta tra le strade d’alta quota.

Dietro di noi un nuovo boato. “Rompiamo le montagne, ma uniamo i cuori” recita il cartello stradale.