Dai giardini di Babilonia a Future City - In viaggio nel Kurdistan iracheno
Viaggiamo fino al governatorato di Ninive, al nord del paese, nell’antica Mesopotamia, in una geografia esotica lontanissima che riporta a vecchi libri di storia dimenticati.
Qui, l’acquedotto di Jerwan, il più antico conosciuto nel mondo, con le sue iscrizioni incise nei blocchi di calcare, in caratteri cuneiformi risalenti all’epoca babilonese, ci riporta al periodo assiro del regno di Sennacherib (704–681 a.C.). La sua costruzione è un’imponente opera di ingegneria idraulica voluta dal re di Assyria, ben cento anni prima di Nabucodonosor, per rifornire la capitale Ninive e i terreni circostanti. Attraverso un canale che misurava, in totale, oltre cento chilometri, sembra fosse destinata ad irrigare anche i Giardini pensili di Babilonia. Attorno al mistero dei mitici giardini babilonesi, mai rinvenuti dagli archeologi e collocati finora nel sud dell’Iraq, vicino al fiume Eufrate, si è posta una nuova teoria di uno studio dell’Università di Oxford. Nuove valutazioni potrebbero collocare la settima meraviglia del mondo antico, proprio vicino all’attuale Mosul, nel nord della Mesopotamia, nella regione del Kurdistan. La fama della Meraviglia di Babilonia dovrebbe, così, cambiare territorio, spostandosi verso nord e dovrebbe anche cambiare re, in quanto tradizionalmente attribuita a Nabucodonosor.
I luoghi di incontro con la Storia millenaria svelano antiche tracce, spesso ancora da comprendere, e si insinuano nella voglia di modernità e di tradizione di giovani che amano la propria terra e sentono la necessità di ricercare le proprie radici. L’antica città di Amadiya, posta su un promontorio a 1400 metri, verso il confine turco, con il suo raffinato minareto di trenta metri d’altezza e Bab Zebar, la porta (da poco restaurata) che per millenni è stata l’accesso alla città, riporta una simbologia storicamente associata alla bandiera del popolo curdo. Ventuno raggi di sole sulla volta dell’arco, simboleggiano il 21 marzo, l’inizio del nuovo anno ad ogni equinozio di primavera (Nowruz). Ai suoi piedi un’antica madrasa dell’Università del Cairo, i cui resti finemente decorati sbucano tra le pietre ammassate a terra, purtroppo abbandonati ad un destino di incuria, ma ancora lì, a raccontarci il passaggio della Storia.
Minareti che affiorano dal paesaggio, il canto vibrante del Muezzin che chiama alla preghiera nell’ora canonica, monasteri cristiani che emergono come rocce dalle pieghe del deserto. Un amalgama di etnie, di religioni, di paesaggi, di storie e di guerre. Una Regione Autonoma con un proprio governo regionale, una bandiera che sventaglia ovunque e una lingua che si contrappone all’Iraq: curdo verso arabo. Chissà se l’indipendenza di un vero e proprio Stato rimarrà solo un'utopia.
La modernità delle città è un forte richiamo per lo studio, per maggiori possibilità lavorative e per nuovi simboli di ricchezza. A Sulaymaniyah, gli alti edifici a molti piani si stagliano contro le montagne, mentre il sole del mattino brilla nell’aria offuscata dallo smog, regalando un’immagine che sembra un’opera d’arte contemporanea, con i suoi significati controversi, con le diverse possibili interpretazioni e lo stupore di chi cerca di cogliere l’essenza di un luogo. Presente e passato si fondono in una convivenza destinata a nuovi mutamenti. Nelle sale da tè i bollitori anneriti sui tizzoni roventi ci riportano ad una quotidianità che, secondo le nuove generazioni, è destinata ad un progressivo cambiamento e dove gli avventori, quasi esclusivamente uomini per lo più non giovanissimi, sembrano raccontarci di un tempo destinato al passato. Dopo un caffè curdo dal sapore dolce e speziato, ci immergiamo nel grande bazar di Suly, perdendoci tra gli intricati labirinti a tema, come da antica tradizione mediorientale. Un’intera strada per la vendita di abiti maschili, dove i sarti confezionano vestiti tradizionali su misura. Un ragazzo, in compagnia del padre, sta provando una giacca in una delle botteghe che espongono i tagli di stoffa e le lunghe cinture di tessuto da arrotolare in vita, con il loro particolare intreccio simbolico: un altro richiamo all’unione del popolo curdo.
Il ritorno verso la capitale Erbil attraversa valli e uno specchio turchese, il lago Dokan, formatosi dopo la realizzazione della grande diga negli anni ’50, che nascose molti antichi tesori, ma anche villaggi e genti spostate in nuovi insediamenti. Oggi luogo di villeggiatura con resort, ristoranti, gite in barca e ristoranti che offrono enormi pesci fritti. Ci fermiamo a prendere un altro pezzo di ghiaccio, una fetta ricavata con una piccola sega da una lunga lastra.
Il caravanserraglio di Koya si trova all’interno del bazar, incuneato tra gli stretti viottoli di botteghe ancora chiuse, dove i teli colorati ricoprono le merci esposte nei banchetti polverosi. Un’aria afosa, sospesa nel silenzio, in uno shisha bar si stanno già preparando le braci per i prossimi avventori. Storie di combattimenti e di resistenza, di bandiere curde che ondeggiano nell’aria, anche qui. Nel “Ko” di Koya, si cerca il significato della lingua curda nella sua origine indoeuropea. “ko”… come co-operation, come co-munity… in quel “co” il senso di legame del popolo curdo, del vivere uniti.
Un ultimo checkpoint prima dell’ingresso nella capitale, vogliono controllare anche i passaporti e l’attesa si fa lunga. Il traffico rallentato e le colonne di auto ci anticipano l’arrivo in città, con una distesa di scheletri di edifici in costruzione, nuovi grattacieli e centri commerciali. Future City: una grande insegna troneggia sopra un nuovo complesso di alti fabbricati moderni, dove gli appartamenti si vendono a cifre dai molti zeri, mentre la Cittadella fortificata domina la città e rimane a raccontarci l’antico insediamento di epoca ottomana (oggi Patrimonio UNESCO).
In una Toyota, un giovane in maglietta e jeans accompagna il padre, in abiti tradizionali, verso la città. Capelli a spazzola contro un paio di folti baffi neri. Mi chiedo se ce la faranno questi ragazzi a costruire il loro Paese, affrancandosi dalle logiche di una politica internazionale dalla vista offuscata.
E la questione curda, l’idea di un Grande Kurdistan, a chi può interessare? “No friends but the mountains” recita il detto curdo, a significare quel sentimento di abbandono e tradimento di un popolo rappresentato da una minoranza di quasi quaranta milioni di persone.