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La guerra è finita? Viaggio nel Kurdistan, memoria e futuro d’Iraq

Il presente è memoria: «Forgive but don’t forget» (perdona, ma non dimenticare). Sono tra le prime parole che ascolto, nell’incontro con una terra costantemente alla ricerca della propria indipendenza. Una terra consapevole della propria lingua e cultura, della propria identità etnica. La bandiera curda è presente a ogni angolo e l’orgoglio di un popolo diviso e tradito dal mondo alimenta la voglia di vivere e di crescere nel proprio Paese. Il Kurdistan iracheno è l’unica area riconosciuta come regione autonoma, all’interno di un grande territorio di circa 400mila kmq (una volta e mezzo l’Italia), suddiviso tra Iraq, Turchia, Iran e Siria.

In città abbiamo già acquistato un grande pezzo di ghiaccio, lungo la strada. A fine settembre ci sono ancora quaranta gradi e ci servirà per tenere al fresco qualche bibita e l’acqua per tutta la giornata. Da Erbil ci stiamo muovendo verso nord e parlare più di un dialetto può essere utile, soprattutto ai numerosi posti di controllo (armati) presenti lungo tutto il territorio. Shano è un ragazzo sveglio, ne parla almeno quattro. Era solo un bambino quando durante la notte la famiglia venne svegliata dal rumore di bombe… «Dicevano che Saddam stava arrivando in città, dicevano che avrebbe ucciso tutti. Ai bambini fu messo un pannolino sul viso e furono chiusi dentro il bagno nel tentativo di ripararli da una nuova possibile esplosione di gas chimici». Nel primo dei numerosi bombardamenti pianificati da Saddam nella regione curda, l’attacco del 1988 al villaggio di Halabja, morirono cinquemila persone e altre settemila furono ferite irreversibilmente. Saddam fu giustiziato prima di essere processato in Kurdistan per le sue atrocità, prima che il massacro di Halabja venisse riconosciuto nel 2010 come genocidio. Il Museo e il Cimitero commemorativo conservano tangibile la verità, ricordano la follia dell’uomo.  

Se a raccontarti le guerre di ieri sono due ragazzi non ancora trentenni, metti a fuoco la tua realtà di privilegio e di fortuna: perché sei nata nella parte più comoda del mondo, perché non ti senti costantemente in pericolo. «Nessuno viene in Iraq per cercare una vita migliore», «nel suolo curdo trovi solo fosse comuni e… petrolio». Dal genocidio perseguito nella follia dell’ultimo dittatore a quello verso la minoranza yazida nel terrorismo di Daesh, le sepolture rivelano migliaia di corpi straziati. Ci si vorrebbe immergere nella cultura millenaria di questo luogo, ma il passato più recente affiora impellente ad ogni passo, i luoghi ti trascinano nella Storia.

Alcune ville di Saddam Hussein ancora svettano tra le colline. Oggi sono trasformate in presidi dei Peshmerga, come quasi tutti gli edifici rimasti dal periodo del regime (case, ville, prigioni). Come quella di Gara Mountain, non lontano da Duhok, un palazzo brutto ed in rovina, mai ultimato, con la nudità dei cementi armati in precaria posizione che incombe come una carcassa, simbolo di una misera decadenza. Tutt’intorno lo sguardo spazia all’infinito sulle meraviglie di un paesaggio sempre mutevole. I campi coltivati si impongono sul deserto arido, lasciandoci immaginare la primavera quando il paese indosserà il suo verde più brillante.

La Storia torna a materializzarsi nel presente mentre passiamo lungo un campo di rifugiati siriani, a Darashrakan, un luogo assolato e polveroso. Ancora silenzi e nessuna percezione di vita. Anonimo, se non fosse per gli enormi tendoni di tela lacera che segnalano la presenza delle più grandi organizzazioni umanitarie del mondo. Un checkpoint, telecamere di sorveglianza, polvere. Molti sono i campi di accoglienza per i rifugiati (siriani, iracheni, yazidi) del Kurdistan, solo qui si trovano circa 4000 persone che cercano una quotidianità nel vuoto di una vita rubata.

A pochi chilometri da Mosul, l’antico monastero cristiano di St. Matthew ci riporta alla recente minaccia dell’ISIS, che raggiunse le colline a cintura del suo accesso. A Mor Mattai l’ISIS non arrivò, ma l’incombente presagio restituì per anni una guerra psicologica logorante.

Scendendo a sud, i campi di melograni corrono lungo i confini, carichi di frutti brillanti di un rosso maturo e prezioso. Mela-granata, proprio come le bombe che echeggiano tra le montagne. I monti Zagros nascondono villaggi minacciati ancora oggi dai bombardamenti e la Storia sembra non aver ancora finito di raccontarci guerre. Le case vengono abbandonate e i villaggi si svuotano per la paura dei continui attacchi. Militari turchi pattugliano strade di montagna ed elicotteri di tecnologia italiana si muovono tra confini politici ed economici, prima ancora che geografici. L’economia dei grandi profitti mondiali cerca di spegnere i riflettori, ma non la sua attività.

Siamo in piena stagione di raccolta dei melograni e percorriamo chilometri e chilometri di distese di alberi ridondanti di frutti, con la buccia che sembra fremere dal carico dei chicchi gonfi del succo dolcissimo, e allo stesso tempo aspro, che potremo bere fresco di spremuta tra i vicoli del bazar.

L’arrivo nella moderna città di Slemani, come viene chiamata oggi quasi a declinarne una nuova modernità, è fatto di grandi centri commerciali, concessionarie di auto Toyota e saloni di bellezza. Già, il petrolio. Dalla collina che sovrasta la città il panorama è bellissimo e, nel buio della sera, Sulaymani appare come un grande tappeto ricamato di luci. La seconda città del Kurdistan si mostra opulenta, ricca, giovane, con un traffico in costante aumento e una immancabile ruota panoramica che si alza verso le montagne. Poi, tra il nero dell’asfalto e il buio, un’anziana signora accovacciata lungo il guardrail vende rotoli di carta igienica alle auto incolonnate, riportandoci velocemente ad altri aspetti di una realtà contraddittoria.

A Sulaymani, la Casa Rossa (Amna Suraka) riporta i crimini del recente passato nel museo memoriale che cerca di diffondere la conoscenza soprattutto tra i giovani, iniziando dalle scuole di prima età. «Bisogna conoscere: per non dimenticare, perché il passato non ritorni». Due pannelli raccolgono e confrontano le bandiere degli Stati che aiutarono a sminare i territori iracheni con quelle degli Stati che avevano venduto all’Iraq le (stesse) mine. Ordigni riconoscibili nella fattura raffinata e declinata nei più inquietanti dettagli. Valmara è il nome di una delle mine anti-uomo più comuni, in un catalogo quasi confidenziale e di vergogna, ideato e prodotto, all’epoca, dalle aziende italiane che vendettero milioni e milioni di ordigni pensati per scardinare arti e annientare vite, ancor prima della morte stessa. Ordigni tuttora presenti nei campi iracheni, non completamente sminati e allertati da inequivocabili segnali arrugginiti.


Insieme agli orrori di Saddam, nel memoriale è stata destinata un’area a raccontare la guerra all’ISIS e al ruolo basilare dei Peshmerga (il cui nome significa “prima della morte”), l’esercito che veglia sulla libertà del proprio popolo, in un paese che praticamente non esiste; milizie combattenti pronte a difendere la propria terra e i diritti conquistati con fatica e tenacia. I volti di uomini e donne (interi battaglioni sono femminili) riempiono le pareti della sala che ci racconta la loro lotta per la libertà, il genocidio, le torture, la guerra, il sacrificio. E il silenzio di chi ha solo guardato.