Pakistan, ritorno alla Bellezza. Viaggio nel mito di Shangri-La, tra festivals colorati e le alte vette del Karakorum
Se davvero James Hilton si ispirò alla Valle di Hunza per il suo romanzo del 1933 Lost Horizon (Orizzonte perduto), possiamo facilmente ricondurre il mito di Shangri-La (da molti luoghi conteso), a quest’oasi ridondante di frutti e di vedute mozzafiato. Alberi carichi di mele, pere, pesche, noci, albicocche, uva che scende da enormi gelsi, dopo essersi avvinghiata ai grandi tronchi per salire su alti rami frondosi; ghiacciai perenni che scendono su valli a 3000 metri di altitudine e fiumi strepitanti che corrono impetuosi, rappresentano l’immaginario di un eden primordiale, un paradiso della longevità.
Siamo nella stagione dei raccolti, donne e uomini lavorano instancabilmente nei campi per fare scorte per l’inverno che si avvicina. Si taglia l’erba per gli animali, si stendono al sole le albicocche colorando un paesaggio di fazzoletti arancioni, si riempiono enormi sacchi di patate, trasportando pesanti carichi su incerti e traballanti ponti sospesi nel vuoto. La vista sugli alti picchi è uno spettacolo che ci coinvolge e ci accompagna alle origini della Terra, proprio nel punto di collisione dei continenti, là dove originarono le montagne più alte del mondo: la grande catena Himalayana con le vette del Karakorum.
Il viaggio lungo la KKH (Karakorum Highway), permeata di un mito oggi stravolto dagli inimmaginabili cantieri cinesi, proverbiali costruttori di strade in luoghi inaccessibili del mondo, si snoderà tra valli ora pietrose, ora verdi e fertili. L’acqua, un elemento che accompagnerà tutto il viaggio, con fiumi violenti e sapienti canalizzazioni che danno ricchezza alle colture e frescura ai bimbi che giocano sguazzandovi all’interno, troverà poi quiete nei paesaggi fiabeschi di Phander, un luogo incantato che sembra attendere folletti e daikini (le fate delle montagne), tra mucche, pecore al pascolo e anatre che zampettano leggere.
Un viaggio che da Islamabad porterà verso nord, osservando cambiare non solo paesaggi e orizzonti ma anche il velo delle donne. Il burqa afghano della valle di Chitral si trasformerà, lasciando dapprima scoperto il volto, poi fino quasi a scomparire.
Ci perderemo al bazar di Chitral, tra botteghe di tessuti, berretti di feltro fatti a mano (i tipici pakul), frutta secca, pentolame, forni dove si cuociono enormi dischi di pane caldo e profumato. Visi d’altri tempi e profondi occhi neri incorniciati da folte sopracciglia e lunghe barbe. Ma anche occhi verdi e azzurri, pelle chiara e, spesso, irriconoscibili tratti asiatici. Bambini che, smessi gli abiti tradizionali, potrebbero sembrare bimbi occidentali. Un incrocio evidente di culture e di storia, un percorso a ritroso nel tempo per ritrovare le origini di questo attuale grande stato musulmano, nato nel 1947 dalla divisione dell’India, nell’anno della sua indipendenza.
Visiteremo la Moschea del XVIII secolo, con cupole a cipolla e balconate di stile moghul, accolti da uomini in shalwar-kamiz, che saranno orgogliosi di scambiare qualche chiacchiera ed averci ospiti per un tè. Già i primi incontri e queste condivisioni inaspettate sfateranno quei piccoli timori che accompagnavano i nostri preparativi a questo viaggio. Ancora una volta, la conoscenza si rivelerà l’opportunità migliore che abbiamo.
Incontreremo i Kalash, nella Bomburet Valley, forse la più esigua delle minoranze pakistane, una popolazione di circa tremila abitanti. Chiamati kafir dai musulmani, un termine arabo che significa pagano, infedele, i kalash sono un popolo fiero ed accogliente, orgoglioso di una cultura che potrebbe, purtroppo, velocemente scomparire.
Le donne brillano per i loro vestiti neri arricchiti di coloratissime applicazioni ricamate, numerose file di collane al collo e un copricapo formato da uno zucchetto aperto e decorato con perline, cipree e una lunga fascia centrale che scende sul collo fino a metà schiena.
Li conosceremo durante uno dei festival legati al ciclo delle stagioni. L’Uchal Festival si svolge in agosto ed è la festa che onora i raccolti e ringrazia la fertile Madre Terra. Giovani donne e uomini balleranno senza sosta, di villaggio in villaggio, durante tutta la notte, avvolti dal buio, al ritmo ipnotico di grandi tamburi. La festa troverà poi il suo culmine nella giornata che vedrà accorrere uomini, donne, personalità, anziani e ragazzi dai villaggi vicini, per raggiungere la sommità della collina per ballare e suonare tutti insieme.
E poi, sempre più in alto, verso la valle che ospita le alte montagne, la spettacolare Valle di Hunza, incastonata a ridosso della grande Cina. A Karimabad, a 2500 metri di altitudine, potremo ammirare, con un solo sguardo, cinque picchi di oltre 7000 metri, uno scenario spettacolare che riempie, non solo gli occhi, di emozione e meraviglia.
Un’oasi di tolleranza, lontana da estremismi religiosi, questa valle vive un islam moderato e più libero e deve il suo sviluppo sociale, economico e di istruzione al grande Ente di beneficienza dell’Aga Khan, riconosciuto qui come capo spirituale degli sciiti ismailiti. Karimabad, un tempo chiamata Baltit, prese il nome del principe Karim Aga Khan per onorarne, così, la memoria futura.
Sui passi dell’antica Via della Seta, sosteremo al piccolo paese di Ganish (oggi Patrimonio UNESCO), primo insediamento nella Valle di Hunza, con un bacino idrico, torri di avvistamento, e un piccolo portone di grosso legno che fungeva da “dogana” per i passaggi delle merci che qui transitavano nei grandi commerci tra Oriente e Occidente.
Infine un passaggio nella Swat Valley, dove l’incontro tra i lasciti delle conquiste di Alessandro Magno e la diffusione di un buddhismo che stava espandendosi in Asia Centrale, diede vita alla sublime arte del Gandhara, in una fusione di maturità artistica di componenti ed influssi classici ellenistici-romani e l’incontro con il Buddha. Pregevoli pezzi sono oggi ammirabili, oltre che a Lahore e a Peshawar, nel Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma, intitolato in anni recenti a Giuseppe Tucci (a lui dobbiamo l’iniziativa della campagna di scavi del 1956, nello Swat, della Missione Archeologica Italiana).
Tra la bellezza, purtroppo anche la distruzione, visibile all’incontro con una statua del Buddha in posizione del loto, di cui non rimane che la parte inferiore; il volto è scomparso, a ricordo dell’avvento dell’islam prima e della furia talebana poi, che distrusse e depredò anche le grotte tutt’intorno.
Un Paese che non ti aspetti, che ti accoglie con sorrisi e generosità, con disponibilità e attenzione verso un turismo che sembrava tristemente scomparso e che vede ora una rinascita positiva e desiderosa di ritrovarne le immense bellezze storiche, naturalistiche, etnografiche ed artistiche. Un Paese fresco di elezioni che, forse, rappresentano proprio il sintomo di una voglia di apertura sempre maggiore.
E gli occhi azzurri dei giovani ragazzi dalla pelle chiara? Si dice siano un antico lascito del periodo storico del grande conquistatore macedone.
Riprenderemo il percorso del fiume Indo, avventurandoci verso il centro del Paese, da dove partiremo alla scoperta dei tesori archeologici del Pakistan e dei suoi 5000 anni di arte e di Storia.
Ma questo è un altro viaggio.