Le solitudini della Dancalia (Etiopia) Cinquanta chilometri di asfalto e il destino di un popolo
Difficile credere che una striscia d’asfalto nel nulla di un deserto africano possa cambiare il destino di un popolo. Siamo nella depressione dancala, nel nord-est dell’Etiopia, una regione del corno d’Africa e luogo conosciuto come simbolo di solitudine e di condizioni inospitali di vita.
Il popolo Afar vi conduce la propria esistenza da sempre, in una fusione cosmica che riporta all’origine stessa del mondo e della formazione dei continenti. Qui, dalla separazione delle placche tettoniche araba e africana, si formò la Rift Valley, una enorme fossa tettonica che ospita vulcani, laghi, culture millenarie e che si estende fino al Kenya, alla Tanzania e al Mozambico. Possiamo osservare vulcani che pulsano magma dal centro della terra, laghi acidi, geyser bollenti, distese saline. Un senso quasi allarmante di contatto con la forza incontrollabile del nostro pianeta.
Al vulcano Erta Ale, raggiungibile solo dopo un lungo cammino e meta della maggior parte dei turisti che arrivano fin qui, il magma è ora scarsamente visibile, se non in piccoli zampilli incandescenti che ribollono nella bocca del cratere, proprio per i movimenti sotterranei che hanno aperto nuove camere magmatiche, facendo abbassare il livello della bocca principale.
Lo avvistiamo da lontano, il fumo acido sale verso il cielo fino a fondersi con il grigio delle nuvole. Uno dei pochi vulcani al mondo ove sia possibile vedere questo spettacolo. Fumo, tanto fumo acre che esce dai crateri comunque in ebollizione e un boato secco e fortissimo che risuona fin nel nostro petto. Un rumore che mette quasi paura e ci ammutolisce di fronte alla potenza di una natura che anche qui dichiara la sua assoluta sovranità.
Poi le piane desolate del Dallol, dove gorgogliano sorgenti acide, geyser gassosi, formazioni di zolfo e di sale, vasche e laghi di acidi che diventano trappole mortali per gli uccelli che vi si avvicinano cercando di abbeverarsi. Un sole cocente che brucia la pelle ed obbliga gli occhi a rimanere quasi costantemente socchiusi nonostante gli occhiali da sole, una temperatura che può arrivare ai sessanta gradi e, per noi occidentali, un luogo visitabile nei soli mesi invernali, quando il clima si mitiga leggermente e l’arsura diventa appena accettabile.
Gli Afar (o Dancali), vi conducono una vita al limite della sopravvivenza, tra mercati brulicanti di attività e di colori, che animano luoghi altrimenti deserti e dove i bambini sono ancora destinati a lunghi percorsi a piedi per raccogliere l’acqua ai fiumi, portando sulla schiena enormi bidoni di plastica gialla, legati al corpo per riuscire a mantenere l’equilibrio. Bambini piegati sotto un peso schiacciante, qualche volta in compagnia di piccoli muli, anch’essi destinati (da sempre) ai lavori di estrema fatica, schiavi silenziosi caricati di enormi e pesantissimi fardelli.
Un’economia arcaica, povera, estrema.
Allevatori di cammelli e commercianti del sale, gli Afar basano la loro economia sul lavoro nell’immensa piana del sale, oltre duecento chilometri di bianco assoluto e accecante. Siamo al confine con l’Eritrea, dove si raggiungono i 120 metri sotto il livello del mare e dove lo spessore della crosta salina raggiunge i tre chilometri.
Un lavoro faticoso ed estenuante, dove l’uomo deve inserirsi in un equilibrio tra Natura estrema e pesante sforzo fisico. Il sole bruciante, la distesa incrostata e sabbiosa che riverbera accecanti bagliori sui volti bruciati dei magrissimi uomini. Cammelli che attendono pazienti e soggiogati, senza conoscere alternativa di libertà. Lavoro di squadra per staccare le grandi lastre di sale con la leva di grossi bastoni, poi affinate in tavolette regolari da caricare sugli animali con legacci di grosse corde. Se ne occupano i Tigrini che arrivano dalla regione del Tigray, impiegati nel duro lavoro di estrazione. Poi la partenza, in lunghissime file che sembrano non finire mai.
Il sale, moneta di scambio da secoli, ancora oggi rappresenta l’attività di questo popolo.
Le lunghe, interminabili, carovane di dromedari che disegnavano il paesaggio dancalo di immagini bibliche e fuori dal tempo, oggi sono ferme. I cammellieri sono in sciopero. In sciopero? I cammellieri? Già l’accostamento di queste due parole da’ una dimensione di difficile comprensione, un’immagine che ammutolisce e disarma di fronte ad una storia che sembrava immobile da secoli. La cittadina di Assobole, centro di passaggio delle lunghe e silenziose carovane, sosta indispensabile per cammelli e cammellieri a metà strada tra la zona di carico delle grandi lastre e quella di consegna nei magazzini di vendita, oggi è deserta. Desolata. Silenziosamente assordante.
Un posto di polizia, un bar quale unico riferimento di piccoli scambi personali e noi, con la nostra piccola carovana di jeep e tende. Un’aria sospesa, calda, immobile. Un sole cocente che offusca l’aria, capre solitarie che cercano riparo all’ombra dei pochi mezzi parcheggiati e uomini che si ritemprano bevendo Coca-Cola, Sprite e Fanta, le uniche bibite vendute fresche nei piccoli bar gestiti da sorridenti e colorate ragazze.
Il nostro percorso si ferma qui, proprio per poter assistere al passaggio dei lunghissimi convogli. Aspettiamo, perplessi, anche noi sospesi nel nulla, chiedendoci il senso di una modernità che in pochi chilometri ha saputo interrompere un ciclo perpetuo di movimento. Cavatori di sale, cammelli, cammellieri e il prezioso sale.
Quei cinquanta chilometri che collegano la piana del sale a Berhale, una cittadina oggi immobile con i suoi magazzini chiusi e silenziosi, permettono ora il transito di grossi camion che in un solo ed unico viaggio possono trasportare tanto quanto 40 o 50 dromedari. E così il prezzo del sale scende, Afar e Tigrini agonizzano in un lavoro che svolgono da secoli. Lottano e lotteranno per riportare il prezzo ad una possibilità remunerativa per il loro faticosissimo lavoro.
Ripartiranno le lunghe carovane disegnando ancora la linea di un orizzonte incerto e polveroso?
Rimaniamo a guardare il vuoto, l’aria offuscata dal calore incandescente, un bambino che gioca sulla carcassa arrugginita di un vecchio tank, ricordo di guerre di ieri.