Tibet, dove sei? diario di emozioni dal tetto del mondo
Tibet, dove sei? Da molti anni seguo i tuoi movimenti da lontano, timida spettatrice di tanta affascinante storia e, purtroppo, di tanta crudeltà anche recente. Da anni raccolgo scritti, foto, documenti che possano illuminarmi il cuore come mi sembra illuminata l’anima del tuo popolo. Da anni guardo le tue montagne come madri intimorenti e protettive, come alveo della nascita stessa di tutti noi, nonché rifugio estremo per le nostre membra, guardo i tuoi laghi, specchi sacri ove osservare i propri pensieri e riporre i nostri timori, i tuoi ghiacciai, puri e solitari, origine dell’uomo. Guardavo tutto, da lontano.
Cercavo anch’io la mia Shangri-Là, volevo trovare il luogo dove l’uomo non rincorre la modernità per essere felice, ma si appaga del suo stesso esistere, riuscendo a godere di un bene davvero prezioso: la vera ed incontaminata Natura, isolata nei secoli quasi a volersi mantenere pura ed inviolata. Lontananza dalla tecnologica civiltà come valore unico e non come limite dell’uomo.
E così sono partita. Per toccare con le mie mani e vedere proprio con i miei occhi la consistenza di tanto amore. Volevo trovarti tra le alte e candide montagne innevate, nei cieli blu punteggiati di bianchissime e rapide nuvole, tra le pieghe delle sporche tuniche dei monaci, tra gli enormi bracieri straripanti di burro di yak. Ora sono qui e fatico a riconoscere i tuoi contorni in questa grande città, la tua capitale, fatico a cogliere il senso del tuo passato, ma osservo i riti quasi ipnotici che ancora (ma chissà per quanto…) riempiono la tua piccola piazza, simbolo oramai alla soglia dell’estinzione del tuo stesso esistere.
Arrivare a Lhasa è come un turbinio di emozioni che non sai se riuscirai davvero a vivere, è come aprire le pagine dell’ultimo libro che stai leggendo e vedere che i fogli aggiunti al finale sono tantissimi, e tanti dovranno essere ancora. Sono fogli lucidi, colorati, non più pagine patinate di quel pallore e di quel sapore antico di classica carta lavorata a mano, ma moderni nell’aspetto e nel tatto.
Mi siedo sulla piazza in fronte al Potala e mi sembra un luogo sconosciuto, lontano da tutte le immagini che fino ad ora avevo fissato nella mente, ma soprattutto nel cuore. Una guardia cinese si avvicina e con gesti molto espliciti mi dice di alzarmi, subito.
I miei occhi si riempiono di lacrime.
Lhasa è nei miei pensieri da tantissimo tempo. Ha preso un posto speciale tutto suo, dove gravitano sogni, ricordi, libri e immagini che ne hanno plasmato l’identità ancora senza conoscerla davvero.
Ti aspetti di arrivare qui, magari non proprio come i primi avventurieri che non sono più tornati, ma nemmeno da un’autostrada costruita a tempo di record (oramai consueta e nota rapidità cinese) e da un ponte che ti può chiaramente ricordare, al primo impatto, solo Brooklyn (anche se molto più piccolo).
E invece mentre percorriamo gli ultimi chilometri di questa autostrada proprio uguale alle nostre, ci accorgiamo che sullo sfondo, guardando l’orizzonte, spicca la sagoma inconfondibile del Potala, il palazzo dei palazzi. È una stretta al cuore, è un senso infinito di tristezza che mi coglie impreparata e quasi mi impedisce di godere di tanto spettacolo e dell’arrivo nella mia “terra promessa”. Che fare? Dove direzionare i pensieri? Sono confusa e mi accorgo di avere pochi minuti a disposizione per capire come impostare la mente. Quelli che si stanno delineando ora (sì, proprio ora sono qui) saranno i miei primi pensieri tibetani, saranno la mia memoria futura dell’incontro con questa Terra.
I poliziotti alzano la sbarra e possiamo così entrare per accedere al piccolo e modesto hotel prenotato proprio a due passi dall’area sacra. La polizia è dappertutto, il traffico è caotico, la strada di accesso (tutte) all’area del tempio di Jokhang è chiusa con accesso limitato dal controllo militare. Subito usciamo in questa confusione di pellegrini, negozianti, ambulanti, poliziotti e turisti. Un insieme di persone, nello stesso luogo, decisamente atipico. Già, i poliziotti. Sono tanti, sono dappertutto, volutamente visibili, superbi nell’aria, arroganti nelle movenze, sembrano innocui. A cosa servono? Sono quasi esclusivamente giovanissimi ragazzi cinesi. Militari singoli che guardano a vista i pellegrini intenti nelle ritmiche ed estenuanti prostrazioni di preghiera, in formazioni di cinque soldati oppure in pattugliamenti serali antisommossa (con manganelli e scudi). Marciano regolari, cadenzati, perfettamente ordinati e composti in mezzo ai pellegrini che compiono incessanti kora intorno al Jokhang.
Mi sento triste, delusa, arrabbiata. La spiritualità di questo luogo è unica al mondo e io non so come reagire all’incontro con i freddi sguardi delle guardie cinesi (ce ne sono perfino sui tetti). Provo una sorta di sensazione tra il disagio e la rabbia. Loro invece, i tibetani, i pellegrini (perché oramai sembrano rimasti solo loro), paiono vivere in una dimensione personale, di distacco, dove il resto del mondo non può comunque entrare, non può scalfire la loro dura pelle abituata alle spossanti fatiche dell’alta quota. Più li guardo, i pellegrini tibetani, più capisco cos’è la fede e cosa significa vivere la vera intimità religiosa come filosofia della propria vita e come unione cosmica con il divino.
Mi fermo alla bancarella di una giovane donna tibetana e ci rimango forse un’ora. Cosa riusciamo a dirci proprio non lo so, visto che nessuna di noi parla la lingua dell’altra, ma riesco a capire che è una donna khampa venuta dal Kham e acquisto alcuni oggetti che teneva chiusi in una vecchia e macilenta cesta (sicuramente oggetti personali) e un contenitore cilindrico in legno per il tè (un nostro moderno thermos). Quasi sicuramente oggetti appartenuti alla sua famiglia, venduti al mercato per realizzare qualche yuan. Cose non più utili nella nuova vita moderna e vendute, sicuramente senza permettere il distacco dalle proprie radici, ma allontanandosi dagli ultimi legami materiali familiari, simbolo di una vita oramai lontana. Ci siamo simpatiche, sicuro. Al di là del sorriso commerciale che deve fare con tutti per poter vendere qualcosa, questa donna ed io entriamo in una sfera un po’ più privata e non poterci parlare per scambiare informazioni, emozioni e racconti ci fa quasi soffrire. E così ci dilunghiamo in sorrisi, ci toc-chiamo le mani, ci profondiamo in gentilezze reciproche, come cedermi l’unico ombrello per ripararmi dal sole abbacinante e caldissimo di questo pomeriggio in alta quota. Quasi dimentico di essere oltre i tremila metri di altitudine e qui il sole brucia davvero.
Mentre le insegno a contare in inglese vedo che cerca il capo della collanina che porta al collo per mostrarmela, un po’ ritrosa, ma orgogliosa. Da un lato il volto di un lama che non sono in grado di identificare, dall’altro l’immagine di Tenzin Gyantso, l’attuale Dalai Lama, per noi “Il” Dalai Lama. Bacia la piccola cornice metallica e con sveltezza la ripone dentro la camicia. È stata un’emozione, l’unica foto fino ad ora vista del Dalai Lama. Ovunque se ne respira la presenza, ma le foto sono bandite. Ci raccontano che fino a qualche anno fa (anche se mi pare strano) si trovasse qualche foto all’interno del Potala. Ora non più.
Riprendo il mio percorso attorno al Jokhang e mi lascio trasportare dall’incessante moto dei pellegrini attorno al tempio, mischiandomi tra loro. Il sole sta scendendo radente la piazza e dona una luce calda ed inebriante a tutta l’area.
Mi fermo ad osservare i pellegrini che si stanno preparando per le prostrazioni di fronte alla “casa di Buddha”. Oggi la temperatura superava i trenta gradi e questo è sicuramente il momento migliore per muoversi verso il tempio.
I pellegrini continuano a sfilare attorno al Jokhang, a compiere i loro kora, il loro sembra un moto senza fine, costante ed indistruttibile. Durante la notte il tempio rimane chiuso, ma ancor prima che il sole accenni ad albeggiare il movimento circolare di preghiera è già iniziato e i pellegrini sono già in paziente fila per attendere l’ingresso.
È molto presto, ma i grandi pullman della polizia hanno già scaricato le centinaia di giovanissimi ragazzi poliziotto che presidieranno il piccolo centro tibetano. Un nuovo giorno.
(tratto da “La mia Asia”)